Quando ho iniziato il Dottorato di ricerca in Neuroscienze presso il Centro Pilota Regionale per la Cura dei Disturbi Alimentari nell’Ospedale San Giovanni Battista di Torino ero una psicologa piena di buoni propositi. Ancora poco avvezza all’ambiente psichiatrico, con entusiasmo e tanta voglia di fare, mi sono ambientata mostrando sempre partecipazione e interesse. Qui ho conosciuto una dimensione nuova fatta soprattutto di giovani ragazze che arrivavano in Ospedale per provare a gestire un rapporto con il loro corpo troppo complicato e difficile. Alla parte di ricerca che conducevo per il Dottorato, affiancavo l’attività clinico – ambulatoriale che svolgevo quotidianamente. Mi interrogavo spesso sul perché il cibo per queste ragazze era diventato un’ossessione, sulle ragioni per cui riusciva a condizionare così fortemente la loro vita ma non ho mai creduto fino in fondo che tutto potesse limitarsi ad una questione legata al mangiare, al perdere peso. Dietro c’era molto, molto di più. Si trattava infatti di sintomi, segni di storie intense fatte di sicurezze precarie e di paure nascoste che come bombe esplodono irruente. Mangiare pochissimo, abbuffarsi, vomitare, usare lassativi e altro sono conseguenze, l’epifenomeno di grandi dolori, di tristezze che appaiono incolmabili. Il cibo diventa uno strumento. Ha il fine di nascondere realtà più oscure, di soffocare profonde inquietudini. Le conseguenze sono riconoscibili: rabbia, frustrazione, dolore, senso di impotenza, tristezza. Le schegge dei Disturbi Alimentari spesso rompono equilibri familiari già instabili che diventano cocci infuocati. Ricordo di aver visto tante ragazze arrivare al Centro sostenendo di non avere alcun problema con il loro corpo o con il cibo, e dall’altra parte i loro familiari spingerle ad iniziare un percorso, a farsi aiutare. Le reazioni dei genitori oscillavano dall’apprensione e preoccupazione per la gravità dei sintomi, alla tristezza e allo sconforto totale perché era impossibile pensare alla fine di un incubo che aveva colpito non solo le loro figlie ma l’intera famiglia. Ma focalizzarsi solo sui sintomi, sul pranzo saltato, sugli etti di pasta non mangiati, sul chiudere la cucina a chiave per evitare le abbuffate, significa ignorare aspetti più importanti, non cogliere qual è la miccia che innesca un disturbo alimentare. Da questa riflessione si apre un percorso per familiari e pazienti. Queste ragazze, così fragili e insicure, portano nel loro corpo i segni di preoccupazioni pervasive e invalidanti, di una sofferenza angosciosa. Le strade tracciate dai professionisti che si occupano di Disturbi Alimentari (le équipe multidisciplinari composte da psichiatri, psicologi, dietologi, nutrizionisti, fisioterapisti) si focalizzano sul prendersi cura degli equilibri frammentati che possono così assumere forme nuove. Sono vie indicate che pazienti e famiglia dovrebbero percorrere insieme: è così che il vaso può ricomporsi e l’incubo svanire.